È guidato da un sardo il progetto europeo (www.dicomo-project.eu) che in tre anni rivoluzionerà la qualità dei rilevatori di raggi X a schermo piatto grazie alla ricerca ingegneristica. Pixel sempre più definiti per ottenere fotografie digitali nitide, cruciali in campo medico ma non solo; le applicazioni sono potenzialmente tantissime. Partita a gennaio, la scommessa iper tecnologica e milionaria – la sola Unione Europea ci ha investito 3 milioni e 277 mila euro, è affidata a un consorzio internazionale diretto da Sandro Francesco Tedde. Nato a Leverkusen da padre sardo e madre tedesca, infanzia e adolescenza a Silanus «ci sono stato dai 5 ai 18 anni», università a Cagliari dove nel 2004 si è laureato in ingegneria elettronica, Sandro ha fatto e fa tuttora la fortuna della Siemens, l’azienda più lesta ad accaparrarsi il suo talento investendoci in maniera convinta.
Fiducia che è stata ripagata con gli interessi: l’ingegnere trentanovenne è l’uomo dei brevetti; il suo nome compare ben ventitré volte tra coloro i quali hanno prodotto innovazioni tecniche rilevanti. Per la gioia – pure economica – del colosso teutonico che conta 360 mila dipendenti sparsi in 190 Paesi e un fatturato da decine di miliardi di euro, tirato su anche facendo incetta continua e ovunque di cervelli. Compreso, ovviamente, il suo. «Mi sono laureato nel 2004 sotto la supervisione della professoressa Annalisa Bonfiglio su un tema legato all’Elettronica organica e, subito dopo, ho fatto uno stage di sei mesi, retribuito, alla Siemens. Pensavo fosse un’esperienza momentanea, invece sono qui da 11 anni. La mia è stata una scelta per certi versi obbligata; non volevo fare la fine di molti miei colleghi che stavano nell’ Italia settentrionale, spesso sottopagati, e così ho deciso di andare all’estero. La continuità tematica era per me essenziale; avevo letto da qualche parte che i cinque anni successivi alla fine degli studi sono decisivi per la carriera, perciò intendevo iniziare con il piede giusto. L’infarinatura di tedesco mi ha probabilmente spinto verso la Germania, ma ero sicuro comunque di dover emigrare all’estero».
Gli ingredienti del successo? Fiducia e impegno reciproci. «Dopo lo stage, l’azienda mi ha trattenuto facendomi conseguire un dottorato industriale nel dipartimento di Nanoelettronica della prestigiosa Technische Fakultät München (TUM) per poi assumermi nel 2008 come ricercatore scientifico; attualmente rivesto le funzioni di project manager e senior key expert research scientist. Mi sono sempre occupato di elettronica organica, particolarmente di fotodioidi organici. Negli ultimi anni le mie ricerche si sono indirizzate sempre più verso le applicazioni in ambito medico. In sintesi sviluppo fotodiodi organici e ibridi per le future generazioni di detector a raggi X in radiologia e mammografia; il settore dell’Healthcare è così strategico per Siemens da essere diventato indipendente da poco più di un mese. La mia sede di lavoro è Erlangen».
Luogo che non casualmente si riconosce in tre simboli: l’università rinomata (Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg), la ricerca d’eccellenza (con l’istituto Fraunhofer-Gesellschaft) e la grande impresa (grazie alle numerosi sedi distaccate della Siemens). Tre anelli di una stessa catena: qui formazione e professione – teoria e pratica per farla spiccia – vanno di pari passo. «La ricerca di base in azienda è ovviamente differente da quella accademica giacché noi dobbiamo sempre tenere presente che alla fine dobbiamo avere un prodotto come obiettivo».
Tanto più per un colosso come Siemens che investe tantissimo nella ricerca anche sotto il profilo umano: «Solo nel Corporate Technology ci sono 1600 persone impegnate a livello mondiale, nel mio gruppo comunque sono l’unico italiano. Tuttavia – aggiunge Sandro – ci sono stati tanti studenti italiani, molti provenienti dalla Sardegna, che hanno fatto esperienza da noi come tirocinanti o dottorandi». Ad attirarli, le opportunità di crescita e un ambiente competitivo ma meritocratico che poggia solidamente sul principio della responsabilità individuale: «Ho la grande fortuna di avere gli orari flessibili. Devo garantire 40 ore settimanali ma decido io come distribuirle. Solitamente arrivo al lavoro intorno alle 9 e torno a casa verso le 18. Faccio ciò che mi ha sempre appassionato e non nego di aver fatto tanto straordinario per lunghi periodi, ma queste sono scelte personali e non imposizioni. Di sicuro vorrei andare più spesso in laboratorio perché – ora come ora – svolgo un ruolo di coordinamento tra meeting, mail, telefonate e riunioni col management. In questi anni ho lavorato con colleghi eccezionali e ho compreso il grande valore dell’agire in team e della meritocrazia. Chi vale fa strada, indipendentemente dalla nazionalità. Ovviamente è indispensabile conoscere o imparare il tedesco per aspirare a impieghi di un certo livello. La Germania soffre una cronica mancanza di manodopera specializzata per cui chi ha buone basi tecniche può inserirsi con relativa facilità. A chi viene – conclude l’ingegnere silanese – consiglio tre cose: cura del curriculum, buona padronanza della lingua – soprattutto quella inglese in contesti grandi – e onestà nel presentarsi».
Giovanni Runchina