Sono passati più di venti giorni dalle Regionali e non abbiamo ancora il consiglio regionale, né ovviamente la giunta. Ma il bello è che i consiglieri che questa settimana saranno proclamati tali troveranno sotto il loro scranno una bomba a tempo. Esploderà nel corso della legislatura determinando, nel’ipotesi minimalista, l’uscita di un certo numero di eletti e l’ingresso di un certo numero di esclusi, nell’ipotesi diciamo massimalista lo scioglimento dell’intero consiglio e il ritorno alle elezioni.
E dire che la legge elettorale sarda è stata approvata meno di un anno fa, quando già si sapeva che la legge elettorale nazionale rischiava seriamente (come poi, infatti, è avvenuto) d’essere dichiarata incostituzionale. Ciò nonostante ne è stata elaborata una regionale che ha riprodotto i principali difetti del Porcellum – non a caso è stata ribattezzata Porchettum – con in più una macchinosità applicativa che ha già causato questo enorme ritardo nella proclamazione degli eletti.
Ma i problemi della legge elettorale non sono solo “tecnici”, originati da legislatori maldestri. All’origine c’è una precisa idea della politica di cui la nostra legge elettorale è il frutto marcio. L’idea di una politica che ha come scopo principale quello di salvaguardare se stessa e i suoi singoli esponenti.
A guidarne la sgangherata formulazione è stato un ineludibile dato aritmetico: la riduzione del numero dei consiglieri da 80 a 60 con la conseguente messa a rischio – per un problema di capienza –di un quarto dei cosiddetti legislatori. I quali hanno creato il sistema che è apparso loro più idoneo a limitare il danno. Prima di tutto bocciando le quote rosa, poi prevedendo uno sbarramento altissimo per ostacolare le nuove formazioni politiche e, all’opposto, non prevedendone alcuno per i “piccoli” in modo da incentivarne l’ingresso nelle coalizioni più forti. Con effetti che stridono prima che con la Costituzione col buon senso: partiti che hanno avuto meno dell’uno per cento portano a casa un consigliere e due coalizioni (Sardegna Possibile e Unidos) che hanno avuto percentuali attorno al 7 e al 5 per cento nemmeno uno.
Fin dal giorno dopo il voto era apparsa chiara la fragilità della nuova assemblea, sul piano della rappresentatività prima ancora che della legittimità formale. Il consiglio regionale che sta per essere proclamato rappresenta meno della metà del corpo elettorale. Tra i nuovi consiglieri ce ne sono alcuni che, con lo stesso numero di voti, avrebbero avuto difficoltà a essere eletti nel consiglio comunale di una piccola città.
Davanti a questi dati ci si aspettava un sussulto non diciamo di generosità, ma almeno di consapevolezza. Un avvertire che si è davvero davanti all’ultima opportunità. Un mettere da parte finalmente le esigenze di carriera dei singoli per arrivare alla nomina – come d’altra parte ha detto fin dal primo momento Francesco Pigliaru (vincitore nonostante la sconfitta della coalizione che lo sosteneva) – di una “giunta di guerra”. Un governo capace di affrontare, senza guardare in faccia a nessuno, i problemi drammatici della Sardegna. E ci si sarebbe aspettati, da parte del centrodestra, l’avvio di un’ opposizione responsabile.
Nulla di tutto questo è successo. Lo sconfitto Cappellacci ha continuato a esercitare il suo ruolo benché esso fosse diventato solo formale. Fino al ridicolo siparietto del doppio incontro dell’ambasciatore britannico, prima col presidente uscente e poi con quello entrante. Non è venuto in mente a Cappellacci di presentare il suo successore all’ambasciatore e poi salutare? Peccato, avrebbe fatta una bella figura e a Londra non avrebbero riso di questa riedizione nuragica di Dottor Jekyll e Mister Hide.
Le trattative per la formazione della giunta – il toto-assessori, come viene chiamato – sono state segnate segnato dalle pretese delle componenti del Partito democratico, dalle lotte interne a Sel, dal variegato fronte dei ‘piccolissimi’ che ora si presentano in chiave “‘sovranista”, ora come gruppo di mutuo soccorso tra nani. E poi da tentativi di infilare in giunta esponenti politici bocciati dagli elettori o esclusi per motivi di opportunità etica. Come se niente fosse successo. Come se la fortunata vittoria elettorale avesse eliminato ogni problema e si potesse tranquillamente continuare con pratiche che – se non fosse venuta in soccorso la dabbenaggine autoritaria di Beppe Grillo – probabilmente avrebbero già portato il Movimento 5 Stelle alla guida dell’Isola.
Francesco Pigliaru da tre settimane sta facendo del suo meglio, col garbo che gli è proprio, per far intendere ai suoi rissosi sostenitori che il tener conto delle esigenze delle forze politiche ha un limite: quello della competenza e del buon senso. A questo limite se n’è aggiunto un altro, oggettivo, determinato dal prossimo fioccare di ricorsi contro le legge elettorale: è probabile che la vita del Consiglio (almeno del Consiglio che sarà proclamato questa settimana) sia più breve del previsto. Un motivo in più per respingere ai numerosi mittenti la pretesa di utilizzare il governo della Sardegna per regolare equilibri interni o per avere una poltrona sulla quale poggiare gli augusti deretani. A perdere altro tempo c’è il rischio di perdere tutto.
G.M.B.