La programmazione “dal basso” e la politica territoriale si trovano oggi in condizioni completamente diverse rispetto a vent’anni fa dal punto di vista del mercato, della tecnologia e della globalizzazione. E’ necessario che esse vengano rivisitate e con esse la politica economica regionale.
Il territorio cambia continuamente. La Sardegna ha intrapreso nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento uno sviluppo industriale notevole. Sono sorti nuovi settori industriali (il vino, le granaglie, la farina, i tessuti, i laterizi, le miniere) e sono state applicate nuove tecniche (il trasporto dell’acqua, l’idrovora, l’energia elettrica, il sistema bancario) che hanno dato vita a uno sviluppo economico in qualche modo diffuso nel territorio regionale, talora ad opera di imprenditori locali, talaltra con l’intervento di uomini e capitali esterni.
Tutti, però, avevano una caratteristica di fondo: idee, conoscenze, connessioni con imprese e persone, erano basate sul territorio: su ciò che in esso avveniva, su ciò che esso poteva dare. Si può dire uno sviluppo “dal basso”. Erano gli imprenditori che partivano dai territori per considerarne la dimensione fisica, le caratteristiche, le persone. Il territorio regionale aveva pecore e latte, campi e grano, argille e pietre, minerali di diverso tipo, e aveva bisogno di acqua da distribuire a uomini, animali e campi, di idrovore per prosciugare paludi, di energia da diffondere presso abitati, imprese e aziende.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, quasi per tutta l’ultima metà del secolo ventesimo, l’Isola viene considerata un luogo di arretratezza da combattere con una politica “dall’alto”, con il Piano di Rinascita prima e con la legge 164 poi. Il territorio è assente. Ciò su cui ci si focalizza sono le necessità economiche e l’occupazione, indipendentemente dalle peculiarità, dalle conoscenze, dalle attività e dall’identità di un popolo.
Nel periodo 1990- 2010 si ritorna al territorio con la politica “dal basso”, si forma prima la politica dei distretti e successivamente quella della programmazione negoziata. Il territorio è il protagonista dello sviluppo, sono i suoi saperi, i suoi mestieri, le sue caratteristiche culturali e sociali, oggetto di scambio e di compravendita, quindi, di valore. Così sono analizzati e promossi il sughero, i formaggi, il vino, i tessuti, la bottarga, il pane, ma anche la meccanica, l’informatica e le comunicazioni (Video on line e Tiscali) ecc.
Ma anche questa politica si rivelerà insoddisfacente. Non sono solo le delusioni della programmazione negoziata, ma anche il fatto che, poiché il territorio cambia rapidamente, le conoscenze, che chiamiamo codificate, diventano sempre più trasferibili e possono essere copiate o addirittura trasferite altrove. Il valore che prima veniva creato all’interno del territorio è ora prodotto anche da altri soggetti più competitivi. In parte la globalizzazione ci porta conoscenze di altri, in parte i nostri beni vengono da noi assemblati e prodotti con tecniche e beni di altri. Complessivamente lo sviluppo diventa sempre più esogeno e, per questa via, comunque, va comparativamente diminuendo.
Da noi, nel nostro territorio, rimangono (sempre che non ci sia esportazione di capitale umano) le conoscenze tacite, derivanti dal DNA, legate all’ambiente e alla famiglia, che si imparano naturalmente e che difficilmente possono essere trasferite se non con gli uomini. Si capisce, quindi, come il territorio sia sempre importante perché permette di sviluppare queste conoscenze, queste abilità che possono dare luogo a innovazioni (la gran parte sono “locali”, cioè incrementali), o a progetti e a idee.
Dal punto di vista delle conoscenze codificate siamo molto indietro rispetto alla media europea e da quello delle conoscenze tacite facciamo molto poco per mantenere e incrementare le specializzazioni e le abilità. In questo modo l’allargamento del gap rispetto ai paesi più avanzati è sempre più ampio.
Bisognerebbe dotare il territorio di beni comuni, di beni collettivi, di bravi “maestri” che possano sviluppare tutte le conoscenze: quelle codificate, che gli altri possono replicare, ma che possiamo replicare a nostra volta, e soprattutto quelle tacite, che difficilmente sono acquisibili dagli altri. Fra queste metterei, al primo posto, quelle relative alla trasformazione della Pubblica Amministrazione e delle nostre imprese tramite investimenti di diverso tipo (corsi, tirocini, concorsi tra imprese, esperienze all’estero, nuovi modelli da sviluppare).
Va precisato, comunque, che i “capitani capitalisti” da soli non possono farcela anche mettendo in campo tutte le energie possibili. E’ necessaria la volontà politica, la volontà di sistema, che agisca come input e testimonianza e trascini e muova uomini e imprese. Regole, impegni, connessioni e collegamenti, disponibilità di infrastrutture e servizi, talvolta sussidi, sono strumenti necessari.
Antonio Sassu
(docente di Politica economica europea all’università di Cagliari)