Quale progetto per il futuro del capoluogo della Sardegna? Con questo intervento di Nanni Spissu prosegue il confronto aperto da Paolo Fadda col suo editoriale dedicato al mistero della “scomparsa” della borghesia cagliaritana.
Il recente intervento di Paolo Fadda su Sardinia Post è, per noi cagliaritani, un bell’invito alla riflessione.
La mia impressione è che racconti questa nostra stagione come quella della fine di ogni desiderio, dell’incapacità dei cagliaritani di ritrovarsi, di inseguire un sogno, di riconoscersi in qualcosa di nuovo che non rinneghi un passato attivo, creativo. E che rivolga questo racconto a quei cagliaritani ancora consci che la ricchezza, il benessere sociale, la vitalità di una realtà urbana sono prodotti da idee, desideri che sanno diventare progetti, di quelli che fanno una città. Una visione dura, forse troppo.
Paolo Fadda ci chiama tutti in causa e, mentre se lo chiede, chiede a noi cagliaritani se, sul nostro presente e sul nostro futuro, abbiamo qualche idea, del possibile e dell’impossibile, qualcosa che ci tiri fuori da una condizione di cui ci dà una lettura che – è la mia impressione – sa di “ultima spiaggia”. Non chiama in causa il governo della città. Ma non perché, penso, ne disconosca il ruolo. . Non è quello, infatti, l’obiettivo cercato della sua riflessione, ma è a tutti noi cagliaritani che sembra chiedere cosa vogliamo.
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Cagliari – dice Paolo Fadda – ha vissuto i suoi periodi migliori quando esisteva una borghesia imprenditoriale illuminata e attiva. Ciò mi ha riportato alla memoria Andrea Raggio che raccontava Cagliari come “città della classe operaia”. Quella borghesia imprenditoriale, in sostanza, trovava sul suo cammino, specularmente, una realtà operaia organizzata con cui confrontare i suoi progetti. Un’ incontro- scontro che è stato necessario per lo sviluppo della città e ha consentito una stagione di crescita e di relativo benessere. Oggi a quella dialettica si è sostituito un suo simulacro.
Mi chiedo spesso, per esempio, cosa sarebbe stata Cagliari senza Saras. Francamente non mi so dare una risposta, perché sono sempre fortemente attratto dall’idea del Golfo degli Angeli libero e disponibile, per noi e per chi viene da noi per conoscerci. Ma so che la scomparsa della Saras oggi determinerebbe una tragedia immane per il lavoro e per l’occupazione e quindi per la vita di tante famiglie.
E’ possibile immaginare oggi uno sviluppo di Cagliari ( come di tutta la Sardegna) basato solo sulla cultura, sul mare, sul turismo, sull’accoglienza, sui nostri prodotti artigiani e sulla genuinità del cibo? In altre parole, è immaginabile uno sviluppo senza l’industria? Qualche amico economista mi risponde che il nostro Pil sarebbe risibile e che potremmo sopravvivere solo grazie ai trasferimenti dallo Stato nelle sue diverse articolazioni, (quote parte delle entrate fiscali, pensioni, stipendi ), trasferimenti essi stessi oggi sempre più precari e incerti. Il ragionamento attorno alla Saras può essere esteso a quei comuni che, tragicamente, oggi devono prendere atto del fatto che la presenza militare nei loro territori è diventata un’ irrinunciabile, se non esclusiva, fonte di sopravvivenza per loro comunità.
Non mi sono mai offeso quando ho sentito definire la mia città “bottegaia”. Ma leggendo Paolo Fadda ho capito fino in fondo quanto è stupido questo giudizio. Veniva spesso da inurbat, che stavano a Cagliari senza sopportarla, con un senso forte di costrizione, anche quando, e succedeva spesso, conducevano una vita dorata.
Ma quella Cagliari “bottegaia” era una parte importante di quella borghesia che Paolo Fadda ha evocato con tanta efficacia. Si potrebbe fare una lunga lista di nomi di famiglie che hanno fatto crescere la città facendo “bottega”, vivendola con rispetto e creatività, assicurando disponibilità di offerta di servizi di buon livello e assicurando quindi vitalità e vivibilità. Voglio fare al volo solo due nomi: Dessì e Carta Raspi. Bottegai? Ma…
Quanto ci manchi oggi quella vitalità davanti a serrande chiuse, desertificazione del centro storico, fuga dei servizi di distribuzione asserragliati in fortilizi improbabili fuori dalle aree urbane, lo sentiamo ogni giorno sulla nostra pelle.
Io sono conscio del lavoro, bello e dannato assieme, di chi governa la nostra città e di chi l’ha governata. E so le difficoltà del fare, so la tragedia della incomprensione, so lo stress quando lo sforzo non trova risposta e cade nel vuoto; so anche che se il cittadino non trasmette una sua energia positiva, anche quando non condivide e chiede soluzioni, chi governa rischia di navigare in una dimensione insostenibile e deve, ora per ora , trovare la carica nonostante tutto. L’ho imparato collaborando per cinque anni con un Presidente della Regione.
Ogni progetto di riqualificazione della città può funzionare se i cittadini fanno la loro parte, attiva, restituendo energia, come chiede Fadda alla associazioni datoriali. Altrettanto si può chiedere a quelle rappresentative dei lavoratori le quali, allo stesso modo, possono offrire creatività, progettualità, impegno e concretezza. E lo si può chiedere anche a tutto il mondo delle associazioni che mettono a disposizione la loro energia e la loro generosità.
Sono ottimista e oggi vedo che sono stati messi in campo molti buoni progetti: il Poetto, la mobilità urbana, la buona tenuta della città “oggetto”, la volontà di restituire in integrum alle periferie la qualità di città, la ricomposizione del tessuto urbano per riportarlo ad unità organica, la vivibilità complessiva dei centri storici e la loro spendibilità come creatori di economia, la restituzione del mare ai cagliaritani, le nuove piazze.
La qualità di città viene dalla sua specificità culturale: questa specificità definisce la mission dei centri urbani, che si genera nella stratificazione dei fatti della storia e delle storie, nella qualità e unicità dei servizi, nei suoi centri di formazione, nell’offerta di spazi creativi che spingano avanguardie a rischiare, nella ricerca di nuove dimensioni e nuove qualità dell’esperienza. Avanguardie, che sappiano trascinare, senza mai essere soddisfatte dei punti di arrivo, sempre in partenza verso nuove esperienze, mai adagiate nel già conosciuto: gelose della memoria e dei suoi simulacri, ma mai annegate nella nostalgia paralizzante e inconcludente.
Le città si qualificano per la loro naturale vocazione a essere avanguardie, creatrici di modelli da offrire per rigenerarsi senza posa: ossessionate dalla santa insoddisfazione e dalla perenne ansia del nuovo, riservando al passato il rispetto e la devozione che sono dovuti, con adeguati luoghi del e per il ricordo.
Una religione, quella della memoria, che obbliga al confronto con le scelte del passato, per non ripeterle più, quando sono state scelte sbagliate. E sarebbe già un bell’ esempio se cominciassimo a ragionare – con razionalità e fuori dal mito – di quello che è stata dopo la guerra la ricostruzione di Cagliari.
Nanni Spissu