Che la Sardegna sia sempre di più relegata agli ultimi posti nelle classifiche dell’economia nazionale ed europea lo pensano in tanti e, soprattutto, lo confermano i dati che sfornano ormai da tempo le più importanti centrali statistiche, da Eurostat all’Istat, da Bankitalia alla Svimez. Perché la sua sopravvivenza appare sempre di più legata a quel che le viene fornito dall’esterno, sia dallo Stato che dall’Unione Europea. Cioè, per dirla ancor più crudemente, va preso atto che un terzo abbondante del reddito medio d’un nostro corregionale (che, tra l’altro, è fra i più bassi del Paese) proviene ormai da trasferimenti esterni.
Si tratta di un effetto negativo che da una trentina d’anni si va progressivamente aggravando, quasi in contemporanea all’abbandono, per disattenzione o inadeguatezza da parte dei vari governments regionali, della capacità di predisporre ed attuare delle scelte efficaci di politica economica. Lasciando così l’Isola in balìa dei venti, dimostratisi quasi sempre avversi alle sue esigenze di dirigersi verso la ripresa e lo sviluppo. I dati statistici sono al riguardo impietosi, con il valore aggiunto dei settori produttivi in caduta verticale e con la disoccupazione sempre più pesante.
Per chi ha memoria lunga o che conosce la storia, la Sardegna di questo 2017 non è poi molto differente, come ritardi e necessità di ripresa, di quella di mezzo secolo or sono. Con in più una negatività assai maggiore: perché allora, a differenza di oggi, era al comando una classe politica forte ed autorevole, capace di individuare obiettivi efficaci e validi e di percorrere rotte utili e favorevoli, oltre a trovare, a suo sostegno, un ampio consenso popolare.
Attualmente, alla grave crisi dell’economia s’è aggiunta anche (e soprattutto) un’evidente decadenza qualitativa della politica isolana, lasciando il dubbio se non sia proprio responsabilità di quest’ultima il continuo regresso in atto. Perché, da che mondo è mondo, all’inconsistenza e alla debolezza della politica si accompagnano quasi sempre il deterioramento, il disordine e la fragilità del settore produttivo: gli esempi storici al riguardo sono infatti, per chi ha buona memoria, molteplici.
Nel ricercare le cause di quest’involuzione, molti esperti le individuano principalmente nella sparizione/dissolvimento dei grandi partiti di massa, così come formatisi nel secondo dopoguerra: un fatto che avrebbe originato una continua e disordinata diaspora che ha partorito, oltre ad incongrue frammentazioni e pericolose confusioni, anche l’emergere di élite spesso inadeguate ed impreparate e, talvolta, solo fameliche di potere.
Tra l’altro, per quel che s’ha da vedere, sono scomparse del tutto – purtroppo – delle valide e riconosciute leadership: dovunque si rivolga lo sguardo, da destra a sinistra o al centro, lo scenario è piuttosto squallido, con una pletora di personaggi che s’atteggiano a tigri e non sono altro che dei criceti. Non paia questa un’offesa, ma se la politica sarda d’un tempo aveva prodotto dei leader nazionali autorevoli come Segni, Berlinguer o Cossiga (ed in Sardegna presidenti della Regione come Brotzu, Dettori, Soddu o Melis), oggi il personale politico è composto da degli homineddus e mes’hominis, più che da veri homimis balentes. Tanto che per governare la Regione, in questi ultimi anni, si sono dovuti (o voluti) cooptare dall’esterno, non senza commettere gravi errori, uomini e donne dell’accademia o dell’imprenditoria. Cioè dei “non politici”, a cui sarebbero mancate, o avrebbero scarseggiato (così pare evidente), quelle attenzioni e quelle sensibilità alle problematiche sociali che sono invece prerogative indiscutibili dei politici d’esperienza e di cultura.
Le ragioni di questa caduta di capacità e di prestigio della classe politica andrebbero comunque ricercate prima di tutto in noi stessi, perché troppo spesso si è espresso il voto “contro” qualcuno o qualcosa, e non “a favore” di scelte e di indirizzi ritenuti utili e necessari. Chi scrive, ad esempio, ritiene che sia ormai tempo che sia indifferibile una riforma radicale della Regione, come organo e strumento di governo. Perché, se l’obiettivo primario è quello di passare dalla stasi allo sviluppo, vi è la necessità di disporre, non solo di una dirigenza politica adeguata, ma soprattutto di un’amministrazione competente ed efficiente. Che sia innanzitutto più “leggera”, più dinamica e meno dispersiva. S’avverte la necessità e l’urgenza di dover diminuire radicalmente il peso d’una burocrazia invasiva e precocemente invecchiata, di dimensioni elefantiache, involuta ed accentratrice. Stupisce il fatto che il rapporto numero di dipendenti regionali/mezzi amministrati ponga la Sardegna in una scomoda e penalizzante posizione di coda.
Si reputa quindi necessario ridare spazio a dei centri decisionali locali, responsabilizzando maggiormente nelle decisioni i singoli cittadini, le comunità, le associazioni, i gruppi sociali, le unioni dei comuni, e così via. Con l’obiettivo di riuscire a mettere in moto un più spedito dinamismo economico ed operativo, e, contestualmente, di poter offrire maggiori possibilità di crescita all’occupazione (gli esempi dei land tedeschi potrebbero esserci d’aiuto).
Si pensi che oggi, per dare vita ad un’impresa in Sardegna, occorrono tempi che sono quadrupli del Veneto, ad esempio, e decupli anche della Repubblica Ceca e della Polonia: quindi non si è per niente competitivi nei nuovi investimenti e si assiste ad un costante dimagrimento dell’esistente. E tutto per via d’un labirinto di competenze burocratiche da cui neppure Arianna saprebbe trovare la via d’uscita. In cui il divieto, spesso solo cavilloso, od il rimando a calende sempre più …greche, prevale quasi costantemente sulla rapidità e sulla semplicità della decisione.
Eppure, nell’economia globale in cui viviamo, il capitale appare assai più mobile del lavoro. Cioè, per dirla più semplicemente, è più conveniente operare per attrarre in tempi brevi degli investimenti esterni in modo da frenare l’emigrazione delle nostre risorse umane inoccupate. Proprio su quest’argomento c’è un’altra “maglia nera” attribuita all’isola, per via dell’entità dei nuovi investimenti registratisi nell’ultimo decennio, che qui da noi hanno rappresentato solo lo 0,0… per cento del totale nazionale.
Le ragioni sono da ricercarsi in quel che s’ appena osservato, proprio perché ogni richiesta d’investimento comporta nell’Isola un iter così tormentato e defatigante da indurre a …lasciar perdere, ed andare, magari, nell’Est d’Italia o d’Europa. Perché quella qualità amministrativa che gli aziendalisti americani chiamano “timing” (il rispetto della tempistica) e che viene ritenuta decisiva per il successo delle iniziative, appare sconosciuta qui da noi, in quanto le decisioni regionali, nel tempo del web, procedono ancora con le lentezze e le peripezie del carro a buoi!
Ora, se la politica è l’arte – come si dice – di riuscire a fare dei buchi nel legno più duro, è proprio alla politica sarda che si deve richiedere di semplificare e modernizzare un apparato burocratico che ha, giorno dopo giorno, giunta dopo giunta, reso sempre più farraginosa, lenta e improduttiva l’attività dell’amministrazione pubblica. Purtroppo il quadro che si ha davanti non induce molto all’ottimismo. Perché dovunque si guardi, a destra, al centro o a sinistra, sembrano prevalere, fra i politici, le divisioni intestine e le competizioni sul potere, più che le disponibilità e le capacità nel predisporre e nell’attuare progetti utili perché l’isola riesca a tirarsi fuori dalle sabbie mobili della crisi. C’è quindi da domandarsi: potrà questa politica sarda rafforzarsi e rigenerarsi culturalmente in modo da poter prendere in mano e migliorare, con decisione, le sorti della Sardegna? Lo si spera vivamente, perché una vera ed auspicata “rinascita” della Sardegna attuale non può che partire, per renderla possibile, proprio dalla “rifondazione” della Regione.
(Poiché chi scrive è di memoria lunga, ricorda che il problema divenne attuale già negli anni ’70, allorché la Giunta decise di affidare ad una delle più prestigiose società internazionali di consulenza lo studio di una riorganizzazione funzionale dell’operosità degli uffici regionali: il progetto fu fatto, presentato, pagato, mai attuato e presto dimenticato: le ragioni? È facile intuirle quanto difficile comprenderle).
Paolo Fadda
(Economista, saggista, già amministratore del Banco di Sardegna)