Sul tema lanciato dallo scrittore Giorgio Todde col suo editoriale dal titolo “Alla fine i fenicotteri sconfiggeranno i massoni”, interviene Paolo Fadda, economista e storico della città di Cagliari.
E’ assai difficile non trovarsi d’accordo con Giorgio Todde per quel che scrive sulla mia e sua città. Perché se anche non se ne condividono appieno le tesi (e può capitare), si rimane conquistati dalla piacevolezza della scrittura e dalla suggestività delle argomentazioni. E, quindi, se ne accettano volentieri le valutazioni ed, anche, le analisi talvolta storicamente discutibili. Come quest’ultima, che parte da quella definizione d’essere, questa nostra, la città delle tre Emme – massoni, medici, mattone – così definita da Alberto Statera e mai smontata, per affermare che il male maggiore di Cagliari è quello d’essere luogo di consorterie, di sette, di camarille di potere. Assai più numerose de is mangonis – sostiene Todde – che affollano ormai, in decine e decine di migliaia, i nostri stagni.
A loro andrebbe quindi la colpa, assai grave, d’avere, dal dopoguerra in avanti, piegato la città ai loro interessi, rendendola urbanisticamente sformata e priva di una vera e condivisa identità civica.
È, per dirla chiaramente, una tesi suggestiva, anche perché fa riferimento ad un personaggio che incarnava in sé quelle tre Emme, e che a Cagliari fu certamente “uomo di rispetto”, per parafrasare il sicilianismo di Sciascia. Ma è anche, aggiungo, una tesi zoppa, nel senso che storicamente ignora molti passaggi e molte circostanze. Proprio per questo mi è parso giusto prendere carta e penna e metter giù qualche ricordo del tempo – ahimé assai lontano: mezzo secolo fa – in cui fui consigliere comunale della mia città, ed a capo della maggioranza che sorreggeva una Giunta di centro-sinistra guidata allora dal professor Giuseppe Brotzu.
Si stava in quei giorni ridisegnando l’intero tessuto urbano, dopo gli sconvolgimenti e le distruzioni belliche, per adattarlo alle nuove dimensioni territoriali e demografiche della città. C’era sul tappeto un nuovo piano regolatore (redatto dal professor Enrico Mandolesi) e ci si trovava di fronte a una nuova responsabilità cittadina, quella d’essere la capitale d’una Regione autonoma, con i suoi molteplici apparati ed il suo esercito di burocrati.
Le discussioni e i confronti, ricordo, furono assai serrati, anche perché gli interessi, non solo politici, erano diversi e divergenti. Fu allora, nel corso di una seduta forse più tempestosa delle altre, che mi trovai quasi costretto a prendere la parola, in difesa della “mia” maggioranza e del buon governo della Giunta, attaccata perché “al servizio” dei c.d. “poteri forti” e lontana dalle “vere” esigenze dei cittadini.
Non so se fu un bel discorso, ricordo solo che lo pronunciai con grande passione, denunciando quel che da cagliaritano, prima ancora che da consigliere comunale, m’affliggeva maggiormente. Sottolineavo come la città non potesse essere solo quella dei cinquanta consiglieri: vi era all’esterno del Palazzo una comunità di cittadini che attendevano delle risposte coerenti alle loro attese. Aggiungevo il profondo rammarico di non aver riscontrato l’apertura di un dibattito e di un confronto anche all’esterno del palazzo. Accusavo l’intellettualità cittadina d’essere rimasta assente dall’ideazione d’una “new town” cagliaritana, di come poter saldare la città che fu di Ottone Bacaredda e di Enrico Endrich con quella che doveva affrontare le nuove sfide dell’autonomia. Eppure, lo dissi allora con grande calore, un nuovo piano regolatore non è, né può essere soltanto un’operazione per urbanisti o per addetti ai lavori, ma è, e deve essere, una profonda operazione culturale che metta insieme competenze e saperi differenti e compositi.
Eppure quell’intellettualità cagliaritana – che pur esisteva e se ne potrebbero fare i nomi – amava rintanarsi nel bar Pasubio a discutere, magari, sui libri di Pavese, sulle poesie di Pasolini e sui valori ancestrali de sa limba, ma sulla città, sul suo divenire, si tirava fuori. Quasi fosse qualcosa di estraneo alla “loro” cultura.
Non diversamente accadrà in anni più recenti, con il piano affidato a Enrico Corti, anch’egli accademico del nostro Ateneo, varato come un semplice documento di regolamentazione urbanistica e non sorretto da un approfondito background di elaborazioni culturali ad ampio spettro. Con gli intellettuali in disparte, a confrontarsi, magari, sulla sardità come utopia o sulla verità del rito delle accabbadore.
Ho ricordato questo perché fra i responsabili dei tanti guasti arrecati alla città vanno anche indicati proprio gli intellettuali, giacché la loro “i” e dovrebbe precedere, come nell’alfabeto, le “emme” di Statera. Almeno a mio giudizio.
Perché a Cagliari gli intellettuali sono rimasti un po’ dei solitari o degli anacoreti, non fanno gruppo, non riescono a stare insieme per costruire una “cultura identitaria” della loro città. Ed è una responsabilità, questa, che non può che rattristare e che pesa molto sullo stesso futuro cittadino.
Perché, lo vorrei dire gramscianamente, agli intellettuali compete storicamente un ruolo determinante ed organico nella guida e nell’amalgama di una comunità: la loro assenza od i loro silenzi non possono che essere giudicati come colpevoli. E la loro indifferenza va additata come peccato grave. Per questo,
tornando al punto iniziale, appare assai difficile comprendere la vera storia cittadina, valutarne le ragioni delle scelte e delle non-scelte, ritrovarne le ragioni che hanno originato gli indirizzi per lo sviluppo e quali freni li hanno rallentati o deviati, se ci si limita a ricercare solo delle colpevolezze di comodo o degli stereotipi appaganti.
Quel che appare certo è che è venuta a mancare, purtroppo, la capacità di saper leggere e raccontare la città, senza cadere nella banale interpretazione di volerla fare per “letture incrociate”, nel senso che i progetti urbanistici li si è intesi valutare in chiave morale o scandalistica e, magari, quelli morali in chiave politica od affaristica. E così via. Ricercare le ragioni del declino della città (può essere questo il problema) può e deve aiutare ad abolire ogni emme dalla definizione cittadina sostituendola, magari, con le tre esse come città del sole, della serenità e della solidarietà.
Ma, certo, ha molta ragione Giorgio Todde nell’augurarsi che un giorno non lontano sul nostro cielo voleranno soltanto stormi di beneauguranti “mangonis”.
Paolo Fadda