Nel dibattito attorno al piano per il lavoro avviato dallo storico dell’economia isolana Paolo Fadda e proseguito con la risposta del segretario generale della Cgil Michele Carrus, interviene Antonio Sassu, docente di Politica economica europea all’Università di Cagliari.
Chiamiamolo pure Piano per il lavoro. Lo dicono entrambi, Fadda e Carrus. Ma cosa vuol dire? Un piano come quello degli anni Ottanta e Novanta con cui sono stati fatti, senza una visione d’insieme, piccoli lavori, spesso trascurati dalle stesse amministrazioni locali? No, questi non creano lavoro (se non a brevissimo termine), non creano imprese né attività produttive. Eppure un piano per il lavoro è utile, anzi, indispensabile: però, attenti, sono necessari beni collettivi, cioè, formazione, specializzazioni, infrastrutture, reti, servizi per l’ambiente e per la vita, beni che fanno aumentare le economie esterne e, quindi, la produzione e la produttività. Sono questi beni e servizi, di cui abbiamo tanta necessità, che attirano imprese esterne e aumentano la competitività di un sistema economico.
In un recente lavoro ho mostrato, con abbondanza di documentazione, che gran parte dei contributi pubblici dati alle imprese tra il 1996 e il 2010, purtroppo hanno prodotto risultati marginali per il sistema economico regionale. E questo è avvenuto per errori da attribuire ai Ministeri e alla Regione per una superficiale selezione dei progetti e per l’assenza di un controllo nella esecuzione delle opere. Anche il sistema imprenditoriale, si deve aggiungere, ha mostrato poca attenzione alla progettualità. Sono mancati, però, gran parte degli investimenti pubblici per la creazione di beni collettivi.
In un processo di crescita e, ancora di più, nel caso dello sviluppo locale, è sempre importante, quando si fa un Piano per il lavoro, che ci sia un aumento delle conoscenze tacite e codificate (entrambe crescono con l’incremento dell’istruzione, della formazione e della professionalizzazione), una crescita delle infrastrutture fisiche e informatiche, un miglioramento della qualità della produzione e della qualità della vita. A cosa ci riferiamo? Uno dei punti cruciali dello sviluppo locale sono i beni collettivi per la competitività: beni e servizi riguardanti la qualità della produzione ma anche i servizi alle persone , alla qualità del sociale in cui le imprese operano.
Ora bisogna dire che se le misure relative ai beni collettivi di cui ogni sistema economico necessita non sono studiate e messe a punto appropriatamente, si buttano soldi dalla finestra, come spesso è capitato. A maggior ragione, di un buon piano per il lavoro, soprattutto noi sardi, abbiamo senz’altro bisogno. La realizzazione di beni collettivi è il principale obiettivo cui gli attori locali devono rivolgersi perché da quei beni e servizi dipende la caratteristica dello sviluppo di un territorio e la sua attrattività, in particolare se abbiamo esclusivamente vantaggi geografici e non di agglomerazione. A noi non deve interessare il dinamismo economico, bensì lo sviluppo locale che si qualifica per i valori e per il benessere complessivo degli abitanti di un territorio.
Elemento distintivo è la capacità dei soggetti locali di lavorare insieme per realizzare percorsi di sviluppo condivisi che mobilitano le risorse locali. Allora si pone un problema di coordinamento e di governance. Di coordinamento perché vanno messi insieme le istituzioni regionali e locali, i rappresentanti dei lavoratori e delle imprese; di governance (in questo caso un coordinamento orizzontale e un’ aggregazione per perseguire interessi comuni, per esempio progetti strategici in vari settori) perché l’accordo deve essere trovato fra tutti coloro che operano per le esigenze reali da soddisfare con i fondi messi a disposizione.
Concretamente, cosa si può fare? Il cuore dei beni collettivi è quello di interpretare i bisogni di tutti e costruire risposte condivise. Perché tutti hanno interesse, direttamente e indirettamente, alla costruzione di quei beni.
Come esempio, possiamo indicare i settori del turismo, dell’ agricoltura, delle bonifiche, dell’edilizia scolastica, del recupero dei piani forestali e dell’ambiente. In tutti questi casi ci deve essere una governance cooperativa fra diversi soggetti che realizzano beni collettivi. Il sindacato, eventualmente e auspicabilmente, può farsi promotore di progetti che possono dare vita ( grazie a processi di formazione-tirocinio remunerati) a piccole imprese o a dipendenti specializzati in settori in cui mancano elevate competenze come nei Parchi (si pensi all’Asinara), nelle Aree marine protette, nei lavori di penetrazione agraria o di rimboschimento, nella chimica dell’ambiente, nei servizi per la qualità delle nostre esistenze.
Le esperienze dei Piani per il lavoro precedenti sono state deludenti anche per le responsabilità dell’amministrazione pubblica e non hanno avuto alcun risultato sul processo di sviluppo regionale. Ciò che si chiede oggi alla CGIL, dopo aver strappato meritoriamente 100 milioni alla Giunta Regionale, è un piano che non si limiti ad appagare meri interessi di categoria, ma dia un contributo allo sviluppo regionale , contemporaneamente alla giusta soddisfazione di esigenze primarie dei lavoratori. E’ ambizioso, però, si può e si deve fare.
Antonio Sassu