Noa: “La musica non può riportare la pace in Palestina. Sono i governi a dover difendere la vita delle persone”

Fino all’ultimo il concerto di Noa, fissato per sabato 2 agosto presso il complesso della Tomba dei Giganti de ‘Sa Domo eSs’ocru’ di Siddi, è stato in bilico. D’altra parte alcuni giorni fa era stata annunciata la cancellazione di un altro concerto dell’artista israeliana fissato per il prossimo ottobre a Milano. Il fatto è che Noa è scomoda. Lo è sempre stata, a maggior ragione lo è mentre il suo Paese è sotto accusa a livello internazionale per la violenza dell’offensiva nella striscia di Gaza. E lei fa affermazioni come: “Ho incontrato Abu Mazen a Ramallah. Credo che il leader palestinese voglia veramente la pace con Israele, ma purtroppo non posso dire lo stesso del mio premier”. Alla fine, il concerto in Sardegna (“Una terra che amo”, dice) si è tenuto. Anche con l’omaggio all’Isola di un “Non potho reposare” cantato assieme a Stefania Secci. Abbiamo incontrato Noa prima del concerto, che si è aperto con un ricordo delle vittime del conflitto tra israeliani e palestinesi.

Noa, cosa può fare la musica per la pace?

“Lungo tutta la mia carriera ho provato ad usare la musica come uno strumento di pace. Ho provato a costruire ponti tra culture differenti. Ma oggi, nella crisi che abbiamo oggi, non credo obiettivamente che la musica possa portare pace. Le persone che oggi sono responsabili della pace, dovrebbero prendersi cura della vita delle persone, piuttosto che mandare i loro soldati e i cittadini a morire. Dovrebbero parlare di pace e fare tutto ciò che è in loro potere per ristabilirla. Non credo che lo stiano facendo. Né per quanto riguarda il mio Paese, né per i palestinesi. Credo solo che i cittadini adesso dovrebbero unirsi contro gli estremismi di entrambe le parti per spingere i propri governi in quella direzione”.

Secondo lei è possibile vedere separati gli estremisti di Hamas dal resto dei palestinesi?

“Non lo so. In primo luogo vorrei porgere le mie più profonde condoglianze a tutte le vittime. E dire che sento molto profonde nel mio cuore le ferite della gente di Palestina. Non so come mi sentirei ad essere tra quelle madri o tra quelle persone imprigionate a Gaza adesso. Ma detto questo devo anche dire che ciascuno per la propria parte deve prendersi delle responsabilità: i loro governanti e quelli del mio Paese. So che è molto difficile, ma queste cose sono già successe nella storia. Anche se siamo pressati, depressi, dobbiamo poter risollevare il nostro diritto e cambiare la realtà”.

Lei è stata criticata in Israele per le sue posizioni.

“Credo che la gente prende in genere posizioni assolute: cerca l’assoluta verità, o l’assoluta giustizia. Cose che di fatto non esistono. C` chi vuole vedere le cose solo bianche o nere, o buone o cattive. Questo non è mai esistito nella storia, e non esiste adesso. La sola cosa che possiamo fare ora non è rivangare chi ha iniziato la guerra, o di chi è la colpa ecc…perché questo non porta da nessuna parte. Poiché ognuno resta della propria idea. Possiamo dire che ora siamo qui: ci compatiamo o proviamo a riconoscerci entrambi, e ci guardiamo con gli occhi dell’altra parte? Anche in Europa vedo persone che danno ricette che in realtà sono causa di distruzione e di morte. Mi dispiace molto questo”.

Conosce il documento  firmato da Nobel, intellettuali di livello internazionale e artisti, in cui si propone l’embargo delle forniture militari a Israele, proprio come si fece per il Sudafrica dell’apartheid?

“No, non sono a conoscenza di questo documento. Credo però che la situazione in Israele non sia paragonabile a quella passata del Sud Africa. In molti oggi lo credono. Ma non è così. Non credo sia possibile fermare il processo della guerra in questo modo. E poi cosa succede in Iraq, in Cina, in Russia o in Siria? Milioni di morti che non contano, e la gente neppure li vede, sono come l’aria. La guerra è cinica: si vede solo quello che si vuole. Non credo che da domani saremo tutti amici e che si getteranno le armi. Credo invece che servano soluzioni pratiche. La soluzione pratica nel Medio Oriente è avere due Stati che si riconoscano nella loro identità e nella loro indipendenza. Nella speranza che in futuro potremmo essere anche noi come oggi è l’Europa che, prima di arrivarci, è passata attraverso i milioni di morti di due guerre mondiali”.

Qual è il messaggio che ha voluto lanciare col suo ultimo album, ‘Love medicine’?

“È un album al quale tengo molto. Credo che la musica giochi un ruolo importante. Gli artisti guardano le cose da una prospettiva diversa: più alta. Sanno che gli uomini possono unirsi per quello che più hanno in comune, e non per quello che li separa. Ma spesso anche la musica può essere violenta. Ci sono canzoni di odio che fomentano al razzismo. Niente, però, è nero o bianco, come ho già detto. Sta tutto in ciò che abbiamo nel cuore, in quali sono le nostre intenzioni, che cosa si vuole raggiungere. Lo stesso vale per i media. Pure i giornali non sono del tutto innocenti in questo dramma. Anche loro hanno le loro agende: quello che vogliono mostrare e le informazioni che enfatizzano per influire sull’opinione pubblica. No, nessuno qui è un agnello innocente. Ho detto che la mia idea,  come artista, è raggiungere le mani di chiunque vuole parlare con me e condividere delle cose. Sono un’artista aperta al dialogo e lo stesso voglio fare come cittadina. La musica può guarire i cuori, ed essere la medicina dell’amore. So bene cosa è una medicina per il corpo, ho un marito medico: credo che ogni artista può dare una medicina per l’anima, se solo abbiamo l’intenzione di raggiungere il cuore della gente. È proprio questo che sta facendo ora questo album…

Lei è considerata un’artista politica, eppure non canta canzoni politiche. Come mai?

“Non canto canzoni politiche perché penso che la politica sia per i giornali o per interviste come questa. La musica è una cosa diversa. Io non voglio cantare ‘il giornale’, ma canzoni che forse resteranno per anni. Anche dopo di me: quando magari avremo la pace”.

Davide Fara

 

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