“Sì, sono io. Non voglio dire che tutte le volte che quella bandiera si è vista in tv è stato merito mio. Ma, diciamo, più della metà sì. Sono cinquant’anni che promuovo la bandiera dei sardi”.
E dire che Giovanni Antonio Casula, 70 anni, non è nemmeno sardo del tutto. Lui è nato a Roma da un sardo di Siniscola e da
una ciociara di Frosinone: “Mezzo siniscolese e mezzo frusinate”, precisa. Ma la distanza ha come rafforzato il suo legame con la Sardegna e ha compensato la quasi totale assenza di una memoria familiare dell’Isola.
“Mio padre – racconta – era del 1922 e suo padre, cioè mio nonno, era del 1899. Era uno dei ‘ragazzi del ’99”, aveva fatto la
Prima Guerra mondiale dove era rimasto ferito. Era tornato in Sardegna giusto il tempo per sposarsi, avere mio padre e morire giovanissimo di malaria, nel 1923, a 24 anni. Mia nonna si trovò sola e si trasferì assieme a mio padre a Roma, da una cugina che era sposata con un militare e aveva bisogno di un aiuto a casa. Portò con sé il suo povero corredo e una vecchia scatola di legno che conteneva tutte le povere cose che erano appartenute al marito. Mio padre crebbe a Trastevere dove conobbe mia madre che lavorava al forno di vicolo del Moro. Lui faceva il muratore. Si sposarono alla vigilia della sua partenza per la Russia, da dove non è più tornato. Sono nato orfano. Nel 1943″.
Ci vorrebbe un libro intero per riassumere i racconti dell’infanzia romana di Giovanni Antonio Casula: i bagni nel Tevere, le scorribande a Cinecittà, ma anche le elementari alla ‘Tavani Arquati’, le medie al ‘Virgilio’, sempre con risultati brillanti, e alla fine il liceo, sempre al ‘Virgilio’ con una borsa di studio, e poi la laurea in ingegneria civile. Casula ha lavorato per anni per una società d’appalto dell’Eni girando il mondo. Si è sposato, ha avuto cinque figli e undici nipoti. E ha sempre condotto una vita agiata, con le disponibilità economiche larghe che gli hanno consentito di coltivare il suo hobby.
“Fu dopo la maturità che mia madre mi convocò solennemente nella sua stanza. Aprì l’armadio dei vestiti e, dal cassetto in basso, tirò fuori una vecchia scatola di legno. Era emozionata, commossa. Mi disse che quella scatola era stata di mio nonno e veniva dalla Sardegna. E che mio padre la considerava una cosa preziosa. Prima di partire per la guerra le aveva detto di conservarla con cura perché un giorno sarebbe stata del primo figlio maschio. Temeva di non tornare, forse presagiva il suo destino. Ma madre era una donna semplice. Faceva la panettiera, non aveva studiato. Aprì la scatola come se fosse un scrigno. C’erano delle vecchie lettere, una croce di guerra, una specie di ciotola di sughero che poi ho saputo chiamarsi ‘obria’, e un telo ripiegato in quattro. Lo aprì piano piano, come se fosse di carta velina e temesse di romperlo. Fu quella la volta che vidi per la prima volta la bandiera dei Quattro Mori”.
Giovanni Antonio Casula s’interrompe di colpo ed esplode una risata: “Credo che per causa mia l’abbiano visto circa 100 milioni di persone!”. Cento milioni? “Eccome, guardi… ” Apre un voluminoso album fotografico. Nella prima pagina c’è una foto vecchissima, in bianco e nero: “Questo fu l’inizio di tutto – dice velocemente – ma ne parliamo dopo”. Volta pagina. ed ecco una foto, molto grande, di una manifestazione sindacale degli anni Settanta. La bandiera coi Quattro Mori è ben visibile nel mezzo di un’autentica foresta di bandiere rosse. E poi l’immagine del Campidoglio occupato dai tifosi della Roma l’8 maggio del 1983, giorno della conquista del secondo scudetto.Tra migliaia di bandiere giallorosse, ecco la bandiera dei Quattro Mori. E poi uno dopo l’altro tutti i concerti del primo maggio. Ed ecco l’elezione di Woityla, la beatificazione di padre Pio… Sempre la bandiera dei Quattro Mori: “Tutta roba mia”, assicura Casula battendosi la mano sul petto.
“Dopo averla aperta – continua – mia madre certo non si mise a sventolarla, ma la tenne tesa, in modo che potessi vederla bene. Mi spiegò che mio padre l’aveva ereditata da mio nonno, e che mio nonno se l’era fatta cucire a Siniscola nel 1921 quando, pochi anni dopo che era tornato dalla guerra, si era formata un’associazione di ex combattenti che volevano difendere gli interessi della Sardegna e lui vi aveva aderito. Insomma, mia madre non lo disse così, ma mio nonno era stato tra i fondatori del Partito sardo d’azione. Naturalmente questo l’ho capito dopo, anche leggendo le lettere custodite nella scatola di legno. In quel momento quella bandiera era la bandiera di guerra di mio padre. Non di mio nonno, ma nella mia idea era proprio di mio padre. E fu in quel momento, senza sapere niente, che decisi che avrei dovuto sventolarla anche io da qualche parte. Ma davanti a più persone possibile, perché tutti dovevano vederla”.
“La prima opportunità arrivò pochi mesi dopo, verso la fine di un’estate caldissima durate la quale avevo trascorso intere giornate con gli amici sulla riva del Tevere. La sera del 21 agosto del 1964 notai una grande animazione nel quartiere. Fuori dalla sezione del Pci c’era un sacco di gente, alcuni piangevano. Era morto Palmiro Togliatti e il giorno dopo ci sarebbero stati i funerali. Avevo appena compiuto vent’anni e quegli uomini, che erano appena più anziani di me, mi sembravano tutti grandi e importanti. Sentii che dicevano: domani tutti presenti. Con le bandiere”.
Riprende l’album e lo apre alla prima pagina, alla foto in bianco e nero. “Romolo Venditti, uno dei miei amici dei bagni nel Tevere, aveva una macchina fotografica. Una vecchia Kodak perfettamente funzionante che, diceva, era stata regalata o venduta a suo padre da un soldato americano. Era un tipo molto sveglio e pratico Romolo. Quando gli dissi che gli avrei invitato una pizza se mi avesse fatto una fotografia al funerale di Togliatti non fece domande”.
Ecco la foto. Si riconosce un giovanissimo Giovanni Antonio Casula che sventola la bandiera dei Quattro Mori sotto lo sguardo sorpreso e un po’ irato di un uomo sulla cinquantina: “Un secondo dopo – spiega Casula indicandolo – quest’uomo mi disse, con calma fredda, di piegare la bandiera e di mettermela in tasca. Non era di un genere ammesso al funerale di Togliatti. Devo dire che fu anche comprensivo e indulgente. Avrebbe potuto anche strapparla. Comunque Romolo fece a tempo a fare la foto”.
La prima di 734. Esattamente. Sarà per via dei suoi studi da ingegnere, ma Giovanni Antonio Casula è un uomo molto preciso e ha tenuto una contabilità esatta di tutte le manifestazioni pubbliche nelle quali ha ‘infiltrato’ la bandiera dei Quattro Mori. Non solo in Italia. Ed eccola, infatti, sbucare tra la folla che a Time Square festeggia l’elezioni di Barack Obama. Ed eccola, addirittura, sulla Piazza Rossa di Mosca nel mezzo di un gruppo di manifestanti che inneggiano a Boris Eltsin dopo lo sventato colpo di Stato dell’agosto 1991.
Naturalmente a sventolare non è sempre Casula. “Fino quando ho avuto una trentina d’anni – racconta – ho agito direttamente. Ero giovane e avevo molto tempo libero. Poi ho cominciato a delegare. Diciamo che sono diminuite le energie, ma sono aumentate le risorse. A uno ‘sbandieratore’ che agisce a Roma do un contributo di cento euro. Ma sono anche arrivato a pagare trasferte abbastanza costose per avere la foto che desideravo. Quella dei Quattro Mori alla maratona di New York mi è costata 3000 euro… Quanto ho speso in questi cinquant’anni? Non ho fatto i conti. Ma diciamo che avrei potuto acquistare una bella villa al mare. Non ho rimpianti. Questo album vale molto di più”.
Conta di andare avanti ancora a lungo. “Anzi – spiega – se ho deciso di uscire allo scoperto è non solo perché mi avete ‘trovato’, avrei sempre potuto negare, ma perché comincio a essere vecchio e non posso pretendere che i miei figli o i miei nipoti si facciano carico della mia mania. Perché è questo, una mania piena di amore. Così piena e per me appagante che ancora non sono mai andato in Sardegna”. No, questo è incredibile. “Sì, capisco – si corregge – ma è davvero così. In realtà sono stato in Sardegna due volte, una a Cagliari e una ad Alghero, ma sempre per lavoro, per convegni. Non ho mai visitato l’interno, non sono mai stato a Siniscola. La Sardegna è una delle parti del mondo che conosco meno. Spero di rifarmi nei prossimi anni. Anche se poi non ho moltissimo tempo benché sia in pensione. Mi affidano spesso delle consulenze e le accetto: ho un famiglia numerosa. E poi devo mantenere gli sbandieratori. Vedere i Quattro Mori in tv e sapere che è ‘colpa’ mia mi riempie di gioia. Ma attenzione: non voglio avere l’esclusiva. La mia gioia è ancora più grande quando vedo una bandiera dei Quattro Mori sventolare e so che è di qualcun altro. Mica posso fare tutto da solo!”.
Antonio Salaris