Gli alberi erranti e i naufraghi di Alberto Capitta, lo scrittore che ama il silenzio

Alberto Capitta è uno scrittore che ama il silenzio. Non cinguetta consigli dalla rete, si tiene lontano dai salotti letterari o dai forum di discussione, non interviene su politica e polemiche. Lascia che le sue parole trovino un’altra strada, quella a lui più congeniale del romanzo. Nelle pagine di un libro i suoi pensieri hanno un impeto travolgente e le sue storie sprigionano una forza straordinaria. Così anche per la sua ultima creatura, “Alberi erranti e naufraghi”, appena uscito in libreria e già in ristampa.

Nel romanzo, pubblicato dalla casa editrice nuorese Il Maestrale e ambientato in una terra dal vago sapore di Sardegna, si intrecciano i destini di quattro ragazzi, Giuliano, Maddalena, Emilio e Michelangelo. Le loro esistenze non potrebbero essere più distanti, eppure per un surreale scherzo del fato si ritrovano uno accanto all’altra, in un continuo rimando tra mito, realtà e sogno. Il racconto oscilla tra scenari urbani e surreali, un bosco incantato popolato da bambini orfani, case-museo con animali impagliati e stanze zeppe di libri e volumi, la campagna vibrante di vita e creature: l’ambiente e il paesaggio sono lo specchio dei protagonisti che li abitano, accompagnano sogni, desideri e paure.

Capitta, sassarese, classe 1954, approda al suo quarto romanzo dopo “Il cielo nevica”, “Creaturine” (in finale al Premio Strega nel 2006 e vincitore del premio “Lo Straniero”) e “Il giardino non esiste” del 2008. Nel frattempo lavora come autore e regista teatrale, segue laboratori di scrittura e ha il tempo pure per chi non se la passa troppo bene: due anni fa ha tenuto un corso di scrittura creativa per alcuni detenuti del carcere nuorese di Badu ‘e Carros, con loro ha dato vita alla raccolta “Evasioni d’inchiostro” uscito un anno fa per Voltalacarta Editrici.

Ha curato un laboratorio di scrittura con i detenuti di Bad’e Carros. Cosa racconta una simile esperienza? E che funzione può avere la scrittura per chi sembra aver perso la speranza di un riscatto?

Non si entra mai con animo leggero in carcere, nemmeno da uomini liberi. I miei alunni erano ergastolani in regime di Alta Sicurezza. Il libro che abbiamo pubblicato insieme, “Evasioni d’inchiostro”, mi aiuta a ricordarli. Perché, devo ammetterlo, mi capita spesso di non pensarli. Ed è forse questa la più drammatica delle verità originate da quell’esperienza: che per quanto ci si cali in quei drammi la vita all’esterno ci chiama ed è un richiamo potente ed è facile dimenticare. Loro sono ancora lì. Passano il tempo tra latrine ed ozio. Un ozio interrotto per un certo numero di mesi dal nostro corso di scrittura. Sarà servita a qualcosa questa scrittura? Risponderò come già ho risposto in un precedente intervento: in certi casi l’aria, più ancora della scrittura, è indispensabile. Che scrivano o no, che abbiano conservato o meno qualcosa dell’esperienza, speriamo almeno che respirino.

In “Alberi erranti e naufraghi” e in tutti i suoi romanzi la natura si anima, si fa protagonista delle storie e accompagna i personaggi. Crede che stiamo perdendo il contatto con l’ambiente e gli animali?

Da sempre gli uomini sono coinvolti in questo grande gioco di acquazzoni, montagne, fiumi e alberi, il problema è che non sono in molti a saper cogliere il valore dell’incanto e preferiscono saccheggiare e distruggere piuttosto che contemplare e salvare. Uno dei grandi lutti del carcerato, per tornare un momento al carcere, è proprio la scomparsa dal loro tatto e dalla loro vista della natura. Un bene fondamentale, l’unico elemento capace di porci in relazione diretta e concreta col fascino e col mistero del vivere.

I protagonisti dei suoi romanzi sono spesso personaggi che vivono in disparte, fuori da convenzioni e schemi sociali. E’ una via di fuga dalla realtà?

Non ritengo i miei personaggi degli sconfitti o in fuga dalla realtà, quanto piuttosto degli individui che si ritraggono, isolandosi, perché dotati di uno sguardo estremamente lucido, uno sguardo che permette loro di leggere il mondo nella sua feroce realtà. E’ questo a porli fuori dalle convenzioni e spesso dalle regole ed è per questo che sono visti come dei diversi e come tali temuti.

Ci racconta cm’è nata l’idea de “I bambini”, gli orfani che si sono costruiti una loro società dentro il bosco?

Di bambini sfortunati è purtroppo pieno il pianeta. Bambini venduti, persi, sequestrati, bombardati, soldati, abbandonati, profughi e assetati, pare non vi sia pace per loro ed è uno scandalo che non sembra avere fine. Nel mio romanzo trovano un bosco, bimbi che vengono da un altrove di guerre e di fame ma anche da un altrove nostrano, perché certe tragedie si nascondono dietro pareti rispettabili. Trovano un bosco dunque e cominciano a vivere a modo loro, soli e liberi. E’ questo che mi ha spinto a scrivere di loro. Dare loro un mondo, saperli forti e indipendenti, non rassegnati, mai vinti.

Oggi quasi tutti gli scrittori si promuovono attraverso internet e social network, lei preferisce rimanere in silenzio. E’ una scelta precisa la sua?

Viste le regole del gioco a volte credo sia più dignitoso e salutare rimanere in disparte.

Quanto c’è di Alberto Capitta nei suoi romanzi?

Sinceramente non si sa mai come rispondere a questa domanda. Dico solo che, lo si voglia o meno, a confluire in scrittura è la nostra materia stessa ed è magnifico che questo possa accadere perché dà la misura della magica alchimia che governa questo processo, questo scrivere.

Francesca Mulas

(immagine da www.paolomaccioni.it)

 

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