“Come ci si sente a essere il numero uno? Non lo so, non ho mai pensato di essere il migliore, facevo solo parte di una squadra straordinaria”.
Sono passati più di vent’anni da quando la nazionale italiana di pallavolo ha conquistato una serie di successi senza precedenti in tutto il mondo e ancora Andrea Zorzi, campione europeo, campione mondiale, miglior giocatore del 1991 secondo la FIVB, non si vede nelle vesti di fuoriclasse. La chiamavano la “generazione di fenomeni”, da una definizione del giornalista Jacopo Volpi: tra il 1989 e 1991, biennio magico della volley nazionale, con Zorzi giocavano Andrea Lucchetta, Lorenzo Bernardi, Luca Cantagalli, Fabio Vullo, Andrea Giani, Paolo Tofoli, in panchina Julio Velasco a guidare il team.
“Con la pallavolo non ti senti mai protagonista, fai parte di un gruppo e non c’è l’esigenza di emergere sugli altri: si vince o si perde insieme”. Oggi Andrea Zorzi, “Zorro” per tifosi e cronisti sportivi, dall’alto dei suoi 49 anni (e dei suoi 201 centimetri di altezza) si guarda indietro e racconta la sua vita tra allenamenti e viaggi continui, i compagni di gioco poi diventati amici, la magia della vittoria e la paura di non vincere ancora, i campionati Europei e Mondiali, le statistiche che lo vedono al terzo posto come miglior battitore nella pallavolo italiana: una storia affascinante e a tratti commovente che grazie alla regia di Nicola Zavagli è diventata “La leggenda del pallavolista volante“, spettacolo teatrale prodotto dalla Compagnia fiorentina Teatri d’Imbarco che andrà in scena da oggi fino a venerdì al Piccolo Auditorium di Cagliari nel programma dell’associazione Carpe Diem.
Sul palcoscenico Andrea Zorzi, affiancato dall’attrice Beatrice Visibelli, racconta se stesso attraverso un filo di ricordi che parte dagli anni Settanta (“Allora le vacanze si facevano al mare, con tutta la famiglia che si muoveva in macchina”), passando per gli anni dei successi in giro per il mondo: in quegli anni la pallavolo nazionale, grazie alla ditta Velasco & Co., iniziava ad attrarre sponsor e diventava più popolare, contemporaneamente le eroine televisive per ragazzi si chiamavano Mimì Ayuara e Mila Azuki.
Uno sport sempre più amato ma mai come il calcio, con il suo infinito giro di soldi e mercato: la pallavolo è rimasta un ambiente pulito forse perché tra giocatori e club gira meno denaro?
“Non direi che c’è una differenza di valori tra pallavolo e altri sport, ma sicuramente in Italia il calcio è molto più che uno sport, è quasi una religione. Chi fa il calciatore oggi è sottoposto a una pressione mediatica che non ha confronti, e i giornalisti sono sempre guardati con diffidenza. Nel volley invece si è mantenuto il valore sociale ma con una organizzazione solida e controllata, le stesse regole del gioco obbligano a lavorare assieme per un obiettivo comune, a differenza dei calciatori che spesso sono portati all’individualismo. Pallavolo maschile e femminile, inoltre, sono sullo stesso livello, cosa che è considerata un valore in più”.
Oggi si occupa di giornalismo con Rai e Sky Sport, e segue anche progetti di educazione sportiva per ragazzi. Scuola e istituzioni fanno abbastanza per i giovani?
“Sicuramente le ore di educazione fisica sono spesso trascurate e le strutture delle scuole fatiscenti, ma in base alla mia esperienza posso dire che non è l’unico problema in Italia: oggi quasi la metà degli Italiani non si muove, e solo il 23% di chi pratica uno sport lo fa all’aria aperta. Il fisico non è qualcosa da seguire solo per ragioni estetiche e tutti dovrebbero prendersi cura del proprio corpo. Sarebbe bello poi che si iniziassero a usare gli spazi pubblici come palestre all’aperto: qua in Sardegna avete un clima bellissimo e spazi ideali per fare attività, come il lungomare del Poetto“.
L’istante in cui chiudere con la carriera sportiva arriva per tutti i professionisti: Zorzi, quale è stato il momento in cui ha capito che avrebbe detto basta a campionati e partite?
“Ho deciso di smettere che ero ancora giovane, a 33 anni, quando ho sentito che la pallavolo non poteva più essere totalizzante nella mia vita. Non avevo più le forze e la motivazione necessaria per seguire tutto questo. E forse c’è stato anche un po’ di orgoglio nella mia scelta: ho preferito smettere prima di cadere”.
Francesca Mulas