Vent’anni, sorriso timido e cordiale, un pallone da basket un po’ sgonfio sottobraccio, Marco ci accompagna per tutta la visita dentro il Cara, il Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Elmas. Sicuramente non è il suo vero nome ma quando gli chiediamo come si chiama ce lo dice con un certo orgoglio: Marco è un giovane profugo del Mali dalla presenza silenziosa, ci segue mentre attraversiamo corridoi con pareti scrostate e qualche vetro rotto, i lunghi anditi con le sbarre alle finestre, i dormitori saturi di cose e vestiti.
Siamo entrati nel Centro dell’ex aeroporto di Elmas venerdì 28 agosto grazie a una richiesta della campagna ‘LasciateCie entrare’ che dal 2011 si batte per la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione, l’abolizione della detenzione amministrativa e la revisione delle politiche sull’immigrazione. Con noi ci sono Alessandra Ballerini, avvocato civilista specializzato in diritti umani e immigrazione, e Cornelia Toelgyes, attivista per i diritti umani che da anni segue e documenta le vicende dei profughi sul blog AfricaExpress: il prefetto di Cagliari ha autorizzato la nostra visita e il viceprefetto Giuseppe Rania ci ha accompagnato. È proprio qui, nella struttura individuata anni fa tra quelle disponibili nella provincia cagliaritana, che sono sistemati i migranti che approdano in Sardegna in cerca di aiuto: tutti si dichiarano rifugiati politici perché in fuga da guerre e violenza, attendono che una commissione del Ministero dell’Interno valuti il loro caso e decida se hanno diritto alla protezione internazionale, nel frattempo il nostro paese ha il dovere di accoglierli e dare loro assistenza come prevede la stessa Costituzione italiana e la Convenzione di Ginevra del 1951.
Non hanno commesso alcun reato, ma sono sorvegliati a vista, non possono circolare liberamente nel Paese o proseguire il loro viaggio ma sono costretti a un’immobilità vigilata da un lungo iter burocratico. Alcuni staranno qui, nel Cara di Elmas o nelle altre strutture di accoglienza temporanea, anche tre anni. Il numero delle domande accolte varia a seconda dei periodi: nel giugno scorso il ministro Angelino Alfano ha dichiarato che la metà delle richieste vengono accolte, quindi un migrante su due è un rifugiato politico. Esattamente come rifugiati politici erano settant’anni fa i nostri connazionali – e anche corregionali, come per esempio Emilio Lussu – che cercavano un sostegno fuori dal paese perché in fuga dal regime fascista: restare in Italia sotto Mussolini significava per alcuni discriminazione, deportazione o morte.
Siamo qui, insieme alla delegazione di LasciateciEntrare, per vedere come vivono. La nostra visita è un evento raro, considerato che i giornalisti generalmente non sono ammessi e le delegazioni umanitarie possono accedervi poche volte all’anno (l’ultima è del febbraio scorso). C’è comunque il divieto di scattare fotografie e intervistare gli ospiti salvo autorizzazione del Prefetto. Scambiamo qualche parola con Marco, il ragazzo del Mali che ci accompagna lungo tutto il percorso e all’uscita ci saluta con una stretta di mano; con gli altri stranieri che troviamo giusto un saluto, un sorriso.
Il Cara si trova a dieci minuti dall’aeroporto civile di Elmas e si raggiunge percorrendo una due corsie, nessun marciapiede ma solo asfalto per quasi sei chilometri. Intorno il nulla, arrivarci a piedi è impresa ardua.
Il panorama dall’auto è piacevole e quasi rasserenante, da una parte la placida laguna di Santa Gilla, dall’altra campi verdi a perdita d’occhio. Peccato solo per quei chilometri di rete e filo spinato che corrono lungo la strada. Quello di Elmas è l’unico Cara in Sardegna: ci sono 220 posti ma in emergenza arrivano a 320, funziona anche come Cpsa – Centro Primo Soccorso e Accoglienza quando arrivano profughi che salpano dall’Algeria e con un un po’ di fortuna in 8 ore sbarcano direttamente qui. Oggi, comunque, ci sono solo 139 persone richiedenti asilo, 17 sono minori (o meglio dichiarati tali, dato che non hanno documenti) non accompagnati. Gli altri migranti presenti in provincia sono distribuiti in strutture temporanee che la Prefettura individua periodicamente tramite bando pubblico, anche perché dal 1 gennaio il Cara dovrà lasciare Elmas e trovare una nuova sede.
LE STANZE DEGLI OSPITI
La nostra visita inizia proprio dai dormitori: ventisei cameroni, distribuiti su due piani, con dodici posti in letti a castello ciascuno. Niente mobili, nemmeno un comodino. Ci sono solo due prese elettriche per stanza, vietati fornellini, stufe e altri apparecchi elettrici e allora i ragazzi si arrangiano con prolunghe e doppie, triple prese. Da una camera all’altra volano cavi elettrici per consentire a tutti di caricare i telefoni o attaccare radioline, ogni tanto in lontananza si sentono musiche arabe. Dodici per stanza e neanche un tavolo, una sedia, un comodino: le loro cose (vestiti, accessori, telefoni, prodotti per doccia e barba, biancheria, borse, asciugamani, libri o quaderni, bottiglie e cibo) sono tutte poggiate sul letto. Alcuni hanno sistemato le lenzuola e piegato gli abiti perfettamente, scarpe e borse sotto il letto, altri meno ordinati lasciano la roba ammucchiata dove capita. I vestiti stesi all’aria ad asciugare nelle sbarre delle finestre evocano brutte immagini di prigionia.
Dimentichiamoci la privacy qui, gli spazi sono tutti in comune: nessuna separazione tra i letti, zero intimità, chi ha il letto di sotto si arrangia chiudendolo con una tendina. Tende anche al posto delle porte e pure docce e lavandini sono in comune. Certo, molti di loro vengono da paesi in guerra o fuggono da situazioni di miseria, un letto e un pasto caldo sono comunque meglio della fame o della paura. Eppure ci chiediamo se la dignità per questi uomini e ragazzi (nessuna donna qui a Elmas) non sia un bene da curare esattamente come la salute, il cibo e la sicurezza.
SBARRE, CONTROLLI E TELECAMERE
Già, la sicurezza: ci troviamo dentro un ex aeroporto militare che fino al 2002 ospitava il Trentesimo Stormo dell’Aeronautica, oggi usato solo come base di manutenzione degli aerei. All’ingresso i militari ci chiedono i documenti. Dentro l’ex aeroporto, polizia e carabinieri. Il palazzo adibito a Cara, uno dei tanti che prima ospitavano uffici e alloggi, fa impressione, circondato com’è da un’alta recinzione metallica monitorata da molte telecamere: allontanarsi di nascosto è impossibile. Gli ospiti non sono certo in prigione ma neanche liberi di muoversi come vogliono: si può entrare e uscire liberamente ma alle 23 di ogni sera si controlla chi c’è e chi non c’è; se l’assenza va oltre le 72 ore senza giustificazioni si perde il diritto all’accoglienza.
LA CASA DELLA SOLIDARIETA’
Chi vuole può raggiungere Cagliari, e infatti durante la nostra visita a metà mattina il Centro è semivuoto: molti hanno preso una delle navette che fanno più volte andata e ritorno verso la città. I bus, così come tutta la gestione ordinaria del centro, sono affidati alla Casa della Solidarietà, consorzio romano che nell’ottobre 2014 ha vinto l’appalto bandito dalla Prefettura di Cagliari per il Cara. Non senza polemiche: dopo l’assegnazione ci sono stati due ricorsi al Tar, entrambi persi, dalle società escluse; la Casa della Solidarietà compare inoltre, non indagata, nelle carte dell’inchiesta ‘Mondo di Mezzo’ che ha portato in carcere diverse persone tra cui il terrorista Massimo Carminati. La vice prefetto, Carolina Bellantoni, ha assicurato che la gara si è svolta nella massima trasparenza e che la gestione è regolare. La direttrice scelta dalla Casa della Solidarietà per Elmas, Nunzia Pica, cagliaritana, è stata per anni volontaria alla Caritas e si mostra disponibile nel fornire informazioni e rispondere a tutte le nostre domande.
LA VITA QUOTIDIANA AL CARA
Nella struttura, oltre alla direttrice, ci sono 52 operatori tra assistenti sociali, psicologi, mediatori linguistici, medici, infermieri, addetti alle pulizie e alla mensa, insegnanti di italiano. C’è una stanza adibita a moschea con i tappeti in terra, negli spazi comuni si vede la partita in tv, ci sono laboratori di musica e disegno, ogni tanto si va a giocare a calcio o pallavolo ma in generale le giornate qui scorrono lente e noiose. Tutti attendono il verdetto sulla richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato. Da quando fa domanda possono passare anche molti mesi per avere una risposta, se l’esito è negativo allora lo straniero può fare ricorso e attendere ancora nella struttura di accoglienza.
Qualcuno ha passato qui dentro anche tre anni: un’infinità di tempo in cui non si lavora e non si possono fare piani per il futuro. Dalla Casa della Solidarietà stanno pensando a corsi di formazione sull’agricoltura biologica in collaborazione con la Prefettura, la Camera di Commercio e la Direzione Regionale per il Lavoro, dato che tra gli ospiti ce ne sono tantissimi che hanno grandi competenze legate alla coltivazione con sistemi naturali. Progetti e programmi sono per ora pochi: non c’è una visione a lungo termine, per i migranti in fuga dai loro paesi ci sono corsi di lingua e orientamento al territorio ma l’impressione, ancora una volta, è che si affronti il tema delle migrazioni nel Mediterraneo come un momento di emergenza e non come un fenomeno continuo e costante. Anche don Marco Lai, direttore della Caritas di Cagliari, ha già sottolineato l’urgenza di una riflessione condivisa e lungimirante.
LA MENSA, L’INFERMERIA, LO SPACCIO
Il nostro giro prosegue negli altri spazi comuni: la mensa è uno stanzone con tavoli da quattro inchiodati al pavimento, qui vengono distribuiti i pasti preparati da un’altra società che ha il servizio in subappalto. Molti stranieri non stanno qui per pranzo, ritireranno il vassoio non consumato la sera insieme alla cena. Compreso nel contratto tra Prefettura e La Casa della Solidarietà anche il servizio di infermeria: qui incontriamo un giovane medico che lavora otto ore al dì da lunedì al sabato, mentre un infermiere è presente tutti i giorni così come tutti i giorni c’è anche un mediatore culturale che fa pure da interprete. Fuori dall’ambulatorio ci sono alcuni ragazzi dai tratti indiani che vogliono farsi visitare; insieme a loro c’è Idrys, senegalese: vent’anni, sguardo vispo, è qui da un po’, per ingannare il tempo ha preso la licenza media e fa volontariato. Il suo sogno è lavorare come cuoco, già aiuta in cucina alla Caritas e questo sabato ha dato una mano alla Sagra del Pesce di Sant’Elia. Ultima tappa del ‘tour’ all’interno del Cara è lo spaccio dove gli stranieri possono spendere il pocket money assegnato quotidianamente a ciascuno. Non hanno i soldi in mano, ma un bonus virtuale da 2,50 euro che possono usare come vogliono. Lo “spaccio” è un semplice scaffale all’interno di una stanza con patatine, bibite, qualche snack, bottiglie di acqua o succhi di frutta; se si desidera qualcos’altro si può fare richiesta, l’importante è che non si vada oltre ai 2,50 quotidiani.
L’abbiamo visto coi nostri occhi, qui siamo ben lontani dai vaneggi di qualche salviniano che parla di wifi, sistemazione a quattro stelle e soldi distribuiti in contanti. E se non è una prigione, poco ci manca.
Francesca Mulas