La sua battaglia continua al di là della cronaca. L’ultimo blitz dei Nas all’Aias di Decimomannu, nel Cagliaritano è di appena un mese fa, un intervento legato all’inchiesta per maltrattamenti nei confronti dei pazienti aperta a febbraio. Attorno si intrecciano storie di malati, dei loro familiari e dei dipendenti. E alcune battaglie: come quella che Maurizio Onnis, emigrato in Svizzera, continua a portare avanti da anni in nome di suo fratello. Gianfranco è morto nel 2014, in ospedale: era ospite della struttura della famiglia Randazzo, aveva un ritardo mentale dovuto a una meningite infantile. Aveva 48 anni e la sua famiglia non è stata avvisata in tempo. Tante le anomalie denunciate dal fratello a vuoto e un unico rimpianto: “Non esser riuscito a salvare Gianfranco, a portarlo via da lì. Nonostante il mio impegno e le sue continue richieste “.
Sul caso andrà in onda, domenica 17 luglio – alle 23.30 – uno speciale Tg1 (guarda il trailer).
Così racconta al telefono, insieme a sua moglie Sandra. Insieme al loro legale, Stefano Belloi, cerca di avere “verità e giustizia”. Lo ha fatto con vari esposti, con foto e video a sorpresa in cui testimoniava le condizioni anche di altri pazienti: lividi, ferite e anche mani bloccate dallo scotch da pacchi. Da mesi lo fa attraverso i social network con una pagina Facebook: da lì ha lanciato, in parte invano, appelli ad altri familiari ma si è spesso scontrato contro il timore, la paura (leggi). Di certo chi parla lo fa in privato e non vuole esporsi. Arrivano segnalazioni e messaggi di supporto anche da dipendenti.
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Il padre aveva perso la tutela del figlio in seguito al mancato pagamento di alcune rette, poco tempo dopo è morto. “I vertici sostenevano che mio padre non avesse pagato le rette di tre anni consecutivi: dal 1995 al 1997 – spiega Onnis – accumulando così un debito con il Comune di Samassi di circa 11 milioni di lire. Per questa ragione è stata tolta la tutela e affidata all’assessore comunale”. Maurizio seguiva a distanza, dall’estero, prima in Germania e poi in Svizzera: “Un’odissea – racconta – ho cercato in tutti i modi per far uscire da lì mio fratello, ma è stato impossibile. Nelle mie orecchie risuona ancora la sua voce che mi chiede di portarlo via. La sua tutela è stata affidata all’assessore ai Servizi sociali del paese che, di fatto, mi teneva all’oscuro delle reali condizioni. Il suo nome è Lidia Lecis, lei era a conoscenza dei maltrattamenti e ora, a distanza di anni, il Comune mi chiede le rette non pagate proprio da lei, ben 15mila euro. E il giudice glielo ha accordato”. Ora, racconta ancora: “Mi hanno riferito che continua a lavorare nel sociale, in un asilo. Ed è pazzesco che sia vicepresidente del Centro italiano femminile in Sardegna, un’associazione che lotta contro la violenza. Proprio lei che conosce la violenza, l’ha vista, e per tanto tempo non ha fatto nulla”.
Parla di continue pressioni e minacce ai danni dei suoi genitori durante gli anni del ricovero: “Dicevano che la casa di famiglia era a rischio pignoramento o reclamavano la pensione d’invalidità. Tutt’oggi Gianfranco, e quindi noi, abbiamo un debito con il Comune di oltre 20mila euro”. Madre originaria di Silanus, nel Nuorese, padre di Samassi, nel Medio Campidano. Il fratello Gianfranco è stato seguito in più centri: dal San Camillo di Sassari fino all’Aias del sud Sardegna. Racconta ancora di come le sue denunce siano cadute nel vuoto, non solo: “C’era un filo diretto tra la tutrice di mio fratello e la direzione della struttura. In un’occasione sono riuscito ad ascoltare una conversazione telefonica in cui si chiedeva proprio a lei di dare l’ok alla mia richiesta di portar via Gianfranco, mio fratello, per qualche giorno. Ebbene, lei – chiamata confidenzialmente Lella – a domanda diretta ha negato. E così, anche quella volta, è rimasto tra le mura dell’Aias”. In sostanza lui denuncia il rapporto strettissimo tra tutori di molti pazienti e la dirigenza: fatto confermato anche da Gisella Trincas, presidente dell’Asarp (Associazione Sarda per l’Attuazione della Riforma Psichiatrica). Addirittura sono gli stessi dipendenti e dirigenti dell’Aias a diventare rappresentanti legali dei malati con un evidente conflitto di interesse: “Perché a ogni ricoverato – sottolinea Onnis – corrisponde una pensione e soprattutto dei rimborsi per la sua assistenza”.
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Maurizio ne ha la certezza: “Gianfranco è stato maltrattato, ho fornito foto e video – alla Procura e anche ai giornalisti di Chi l’ha visto – nelle mie visite a sorpresa lo trovavo sempre vestito con stracci, e i cerotti in testa e quando chiedevo spiegazioni mi riferivano di cadute o di gesti autolesionistici. Ma la verità è un’altra come dimostrano anche le immagini dei Nas dell’inchiesta”. Il caso emblematico che continua a far riflettere Onnis è quello della ragazza con le mani bloccate dallo scotch: “Tutto è stato insabbiato. Addirittura sono stato denunciato dai parenti, un fratello, di quella paziente. Poi l’archiviazione senza nemmeno esser stato sentito dalla Procura”. Il clima è quello di paura, di sospetto: “Lo stesso che respiro ora, mi dicono che i Randazzo sono una famiglia potente, molti nel paese, anche miei familiari lavorano direttamente o indirettamente per loro. Da qui il silenzio e la cautela: nessuno si espone, dai dipendenti ai familiari”. Il suo appello è in parte caduto nel vuoto, ma lui insiste e va avanti: “Lo devo a Gianfranco e lo devo a me stesso, alla mia famiglia. Molti mi chiedono aiuto, ma sono io che ne ho bisogno”.
Monia Melis