Non campi di concentramento, ma un generico confino. Al resto, pensavano le pietre polverose delle campagne sarde, la miseria dei paesi: i più ricchi sull’asino, gli altri a piedi. La Sardegna è stata anche terra di deportazione tra il 1938 e il 1940, una manciata d’anni anni alla fine del Fascismo, in cui l’Isola è diventata la meta – obbligata – dei rom dell’Istria. Il vero inizio di una politica di repressione tutta italiana, rimasta per decenni una pagina fumosa, tutta da studiare. Le storie di Rosa Raidich, dei suoi figli tra cui Graziella (Lalla) nata a Perdasdefogu rientrano nel Porrajmos: termine romanesh che significa “divoramento”, di fatto: sterminio.
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I rom sinti erano infatti considerati “spie” da Mussolini, al pari degli ebrei: e quindi da isolare e neutralizzare, successivamente anche in veri lager nel Sud Italia (Molise e Abbruzzo) e in Emilia Romagna. Fino alla deportazione negli ultimi anni del regime in Germania e Polonia con l’uccisione di migliaia di uomini, donne, bambini: la stima è di 500mila.
Il lavoro di studio e ricerca di documenti e testimonianze è stato portato avanti dal Centro studi zingari di Roma e da vari giornalisti e storici, tra cui Mirella Karpati. Una rete in parte ricostruita di storie, racconti e vite di passaggio. Dopo il 1945 delle ottanta persone confinate in Sardegna non c’è più traccia: sono tutte tornate nel continente, a caccia dei loro parenti che spesso non troveranno. Anche se è probabile che – in parte – alcuni siano rimasti. Ne è convinto Luca Bravi, dell’Università di Chieti, uno dei ricercatori che si è occupato dei rom in Sardegna. Autore, insieme a Matteo Bassoli, del “Porrajamos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo”. Se ne è parlato in uno dei tanti appuntamenti della tre giornate del convegno organizzato dalla Caritas a Cagliari dal titolo “Da Zingaro a cittadino”.
L’ordine al confino, scritto, è stato dato nel 1941: una circolare arrivata dal ministro degli Interni, firmata dal capo della polizia Arturo Bocchini. Si ordinava: «gli zingari di nazionalità italiana certa aut presunta ancora in circolazione vengano rastrellati nel più breve tempo possibile et concentrati sotto rigorosa vigilanza in località meglio adatte a ciascuna provincia». Prima ancora c’era stato un rigido e dettagliato censimento. Poi, l’ordine delle partenze: fino a Civitavecchia, poi la nave. Ottanta persone sparpagliate in paesi minuscoli: nel Nuorese e nel Sassarese. A Lula, Perdasdefogu passaggi certi che si ritrovati anche nei documenti dell’Archivio di Nuoro e di Pasino, in provincia di Pola. Ma i movimenti verso l’Isola erano iniziati già prima, nel 1938: un’altra donna, Angela Levacovich: nessun reato a suo carico, solo l’essere rom. E così è arriva a Lula, poi spostata a Perdas. I cognomi sono soprattutto slavi: Levacovich, Poropat, Raidich, Stepich, Carri. Ma secondo gli studiosi non erano gli unici presenti in Istria in quegli anni. Le altre famiglie in quanto “zingari autoctoni nazionali” non subirono il confino, almeno fino al 1940, quando la persecuzione arrivò anche per i rom italiani.
Sulla nave per la Sardegna salirono anche molti bambini: anche se a conti fatti il viaggio per il confino sarebbe stato più costoso rispetto all’affidamento all’Opera maternità e infanzia. All’arrivo lo smistamento a chilometri e chilometri di distanza: una o massimo due famiglie per paese, in alcuni casi anche donne sole. Una a Urzulei, una a Bortigali e così via: Ovodda, Talana, Loceri, Nurri, Posada, Padria, Martis, Chiaromonti e Illorai.
Della loro vita di tutti i giorni poche tracce scritte, nei racconti di chi riesce a tornare in Istria soprattutto la fame nera, gli stenti vissuti nella miseria sarda. Condizioni condivise e familiari con gli abitanti: “C’era una fame terribile – racconta Rosa Raidich – Un giorno, non so come, una gallina si è infilata nel campo. Mi sono gettata sopra come una volpe, l’ho ammazzata e mangiata dalla fame che avevo. Mi hanno picchiata e mi sono presa sei mesi di galera per furto”.
Partono tutti di nuovo verso il continente solo dopo il 1945, quando la guerra è di fatto finita e si smantellano pure i lager tedeschi. “Non esistono più testimoni diretti del confino, ma è di fatto un racconto corale e vivo nella tradizione orale delle famiglie rom”, spiega il ricercatore Bravi. I documenti scritti portano anche a una bimba rom, nata proprio a Perdasdefogu: Graziella detta Lalla, figlia di Rosa Raidich. Ed è un’eccezione quasi nazionale, perché di fatto venivano evitate le registrazioni. È la stessa Rosa Raidich a darne testimonianza: “Mia figlia Lalla è nata in Sardegna a Perdasdefogu il 7 gennaio 1943, eravamo lì in un campo di concentramento”. Nessun lager è stato, poi, accertato. Anche se non si esclude – spiega Bravi: “che esistessero zone recintate”, o aree in cui i confinati rom non potessero attraversare sempre “per motivi di sicurezza”.
Eppure Lalla di Perdas ebbe anche una madrina per il battesimo, come racconta Giacomo Mameli, in un articolo sui rom di Foghesu. Tra la miseria di quegli anni e qualche pezzo di pane diviso le donne spiccavano rispetto ai paesani: sapevano anche leggere e scrivere. Come dimostrano i documenti e le stesse lettere inviate dalla Raidich alle autorità: scrittura sghimbescia ma ferma soprattutto nelle intenzioni. Negli anni di confino scrive per reclamare l’indennizzo previsto per gli internati dal regime: “Ma che – spiega Bravi – lo Stato non corrispondeva praticamente a nessuno”. E ancora, ormai dopo molti anni dal ritorno nella penisola chiede i documenti di quella figlia nata a Perdas. E di cui, a dispetto di tutti, è rimasto segno nelle carte, del Comune e pure della parrocchia.
Monia Melis