Fotografare è, per Henry Cartier Bresson, porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. Il buon fotografo saprà cogliere quell’attimo, fatalmente fuggente, per consegnare alla storia un negativo riproducibile indefinitamente. Roland Barthes, nel suo famoso saggio “La camera chiara” completa in qualche modo il concetto: «ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente». Quindi quell’attimo colto con maestria appartiene, immediatamente, già al passato, a ciò che è stato e non sarà mai più.
Questa riflessione di Barthes è spunto e filo conduttore della mostra collettiva “All’Infinito” Inaugurata sabato 15 giugno nella sala della Cannoniera del Centro comunale d’arte e cultura Il Ghetto di Cagliari realizzata da Fine Art Fotografia di Michelangelo Sardo, con la collaborazione del Consorzio Camù. La mostra è visitabile sino a domenica 30 giugno.
Si tratta di una mostra saggio di 17 artisti esordienti, che arriva alla fine di un percorso di studio, con lo scopo di mettere in rilievo le competenze tecniche acquisite e la padronanza di un linguaggio che sfrutta appieno le potenzialità delle immagini.
«Nei miei corsi — dice Michelangelo Sardo, fotografo e docente — l’analisi del linguaggio è parte essenziale dell’insegnamento. Lo studio della tecnica è stato costantemente affiancato dalla lettura di saggi di semiologia e dall’analisi costante e puntuale delle immagini dei grandi maestri». E l’elevato livello delle stampe in mostra non fa che confermare l’accurato lavoro teorico e pratico del corso.
Per dovere di cronaca cito tutti gli autori in ordine rigorosamente alfabetico: Giacomo Atzori, Giacomo Boccolo, Sara Carcangiu, Claudio Vittorio Carta, Diana Carta, Monica Cauli, Ignazio Dessì, Martina Farci, Lorena Mameli, Luca Marotto, Francesco Meloni, Alessio Orrù, Giorgia Piras, Roberta Podda, Laura Sergi, Alessandro Serri e Federica Turtas.
Soffermandosi sulle opere esposte si riconosce immediatamente il pensiero del grande semiologo francese, declinato e interpretato, al di là del tema della mostra, in senso ampio e personale, coniugando il linguaggio e la tecnica fotografica in forme ed espressioni originali e mai scontate con una poliedrica ricchezza di temi e forme espressive.
Se Giacomo Boccolo, con le sue immagini di giochi infantili riscopre il classico album di famiglia, fatto di attimi che si ripetono all’infinito non solo nelle stampe, ma nei nostri ricordi, restando però fatalmente tali, Luca Marotto coglie la fissità dei ritratti di statue i cui sguardi, pietrificati da sempre, contraddicono, con un sottile paradosso, le parole del Maestro, replicando, nella loro inalterabilità, una ripetizione insita dall’essenza stessa dell’opera.
E Roland Barthes e “La camera chiara” rivivono anche nei ritratti senza tempo di Sara Carcangiu e in quelli destrutturati di Martina Farci, metafora di quella verità aleatoria di cui è portatrice l’arte della fotografia.
Ogni lavoro presentato non nasce per stupire ma per affermare una riflessione, un concetto, una personale ricerca. Fedeli alle parole del Maestro: «Lo shock fotografico non consiste nel traumatizzare. Piuttosto nel rivelare ciò che era così ben nascosto…».
Ci sono mostre che ti colpiscono per la loro coerenza concettuale, altre ti coinvolgono per la tematica di cui sono portatrici. Questa ti avvolge in un caleidoscopio variegato di stili, di interpretazioni, di linguaggi che in fondo ti ricordano che la fotografia è sì un attimo, ma denso di emozione, di cultura, di sogni. E’ l’irripetibile replica, all’infinito, delle nostre più intime visioni.
Enrico Pinna