Dall’arsenico allo zinco, nelle viscere di Portovesme scorre un fiume di veleni. E che sotto le fondamenta dell’area industriale non gorgogliasse acqua di fonte, lo si sapeva. “Il problema di maggior rilievo – si legge nell’ultima relazione pubblicata dall’Arpas – è costituito dalla presenza di contaminanti inorganici […] e si segnalano superamenti dei limiti per alcune sostanze nocive”. Quel che l’asettico e rigoroso frasario scientifico non dice, però, è che quei “superamenti” si traducono in numeri da far tremare i polsi.
Il carcinoma polmonare figura tra gli effetti più nefasti del cadmio, elemento chimico relativamente raro. Non a Portovesme. Per legge la sua concentrazione non dovrebbe superare i 5 microgrammi per litro d’acqua (1 microgrammo equivale a 0,000001 grammi) ma quando i tecnici dell’Arpas hanno analizzato un campione prelevato in uno dei pozzetti di controllo dell’Alcoa, i microgrammi/litro oscillavano tra 123.000 e 151.000. In proporzione: 30mila volte oltre soglia. E la situazione peggiora anno dopo anno, visto che nel 2013 il livello di cadmio aveva fatto registrare un picco massimo di 20mila microgrammi/litro e un anno dopo si è toccata quota 151mila. È andata ‘meglio’ in uno dei piezometri della Portovesme srl: valore minimo 7.700 microgrammi, valore massimo a 28.000. Numeri che per Domenico Scanu, successore di Vincenzo Migaleddu alla presidenza di Isde – Medici per l’ambiente, testimoniano una “situazione critica” (leggi).
Una precisazione: la falda segue le ‘correnti’, quindi le sostanze nocive possono essere prodotte in un punto e trasportate poi da tutt’altra parte. È per questo motivo, ad esempio, che nel pozzetto S124 installato all’interno della centrale termoelettrica Enel ‘Sulcis’ – a valle di Eurallumina – sono stati rilevati 1 milione e 100mila microgrammi di alluminio in un litro d’acqua. Soglia di legge: 200 microgrammi.
Prima che il suo uso venisse vietato a causa dell’alta tossicità, il tallio veniva impiegato in particolare per la produzione di topicidi. Nelle acque sotterranee non dovrebbe superare una concentrazione di 2 microgrammi per litro, ma nel pozzetto 2 della centrale Enel ‘Portoscuso’ il valore minimo si è attestato a 2.500 microgrammi, quello massimo a 5.700 (ovvero 2.850 volte la soglia).
Mortale e neurotossico (nel migliore dei casi) il mercurio è accettabile nella misura di 1 microgrammo/litro. Dice l’Arpas che nel pozzetto 2 della Portovesme srl, su quattro campionamenti il valore più basso è stato pari a 572 microgrammi, quello più elevato si è ‘fermato’ a 593.
Poi c’è l’arsenico. Soglia di legge: 10 microgrammi. Rilevazioni nel peziometro S148 della centrale Enel ‘Sulcis’: picco a 3.100 microgrammi. E ancora, manganese, ferro, solfati: tutti pesantemente oltre soglia, in proporzioni inimmaginabili. E non manca nemmeno il fluoro, che non è certo prerogativa della Fluorsid. Ma le acque di falda dove vanno a finire? L’avremmo voluto chiedere ai responsabili del laboratorio dipartimentale Arpas del Sulcis, che hanno validato i prelievi: raggiunti telefonicamente, hanno preferito non parlare.
I dati risalgono al 2014 e sono i più recenti disponibili. Sono stati pubblicati diversi mesi fa sul sito istituzionale dell’Arpas ma sono passati sotto silenzio. Anche perché l’agenzia regionale non ha certo brillato in trasparenza. In homepage, del report, nessuna traccia. Si va per tentativi alle sezioni ‘monitoraggi’ e ‘controlli’, come logica vorrebbe: niente di niente. I dati sulle concentrazioni di veleni che schizzano oltre qualsiasi soglia concepibile, l’Arpas li ha rubricati alla voce ‘progetti’. Quasi fossero un obiettivo da raggiungere in itinere.
Il quadro risulta ancor più inquietante se si tiene conto del fatto che certe sostanze sono tipiche di alcuni cicli di lavorazione, a partire dall’alluminio e dallo zinco. Eppure nemmeno la chiusura degli stabilimenti dell’Eurallumina e dell’Alcoa, avvenute anni e anni fa, ha determinato un abbassamento delle concentrazioni di queste sostanze, a comprovare la grave (e forse irreversibile) compromissione del territorio. Nel frattempo si parla di progetti per la messa in sicurezza della falda con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati – dalla Regione al ministero dell’Ambiente passando per le multinazionali proprietarie degli impianti – attraverso le cosiddette ‘Conferenze decisiorie’. Definizione quanto meno beffarda: si tratta di consessi talmente ‘decisori’ che la prima riunione si è tenuta dieci anni fa (leggi) e ancora oggi si discute su quanto debbano pagare, in proporzione al danno cagionato, i responsabili del disastro.
Contemporaneamente, però, procede spedito con l’adesione convinta di Regione e ministero dell’Ambiente, il progetto di ampliamento del bacino dei fanghi rossi dell’Eurallumina. Una montagna di scarti tossici che oggi s’innalza verso il cielo per dieci metri: secondo il progetto si dovrebbe salire fino a 42 metri. L’unico ad opporsi – insieme con le associazioni ambientaliste – è stato un architetto salernitano, il Sovrintendente ai Beni paesaggistici per il sud Sardegna Fausto Martino. Che ha detto una cosa semplice: la compromissione dei luoghi non può giustificare un ulteriore stupro del paesaggio e del territorio, semmai invoca prepotentemente l’avvio di un serio progetto di bonifiche secondo il principio del ‘chi inquina paga’. Politica e imprenditori l’hanno massacrato, nel nome dell’imprescindibile e vitale ‘sviluppo industriale’. Spesso tenuto in piedi da sovvenzioni pubbliche miliardarie e nonostante tutto miseramente crollato, lasciando un’eredità non proprio appetibile.
Pablo Sole
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